“La famiglia del Silos” – Febbraio 2024
La denuncia, inoltrata a firma collettiva da parte de “La famiglia del Silos” a tutte le autorità coinvolte e alla stampa, presenta toni accesi e volti a mettere in luce le condizioni di vita all’interno dell’ex magazzino granaglie ottocentesco, adibito a ricovero per gli esuli giuliano dalmati e altre famiglie triestine in attesa di alloggio, per “noi ITALIANISSIMI e in pari tempo DISGRAZIATISSIMI CITTADINI, che tutto abbiamo perduto, avendo dovuto abbandonare tutti i nostri beni […]. Dopo lunghissime e instancabili pratiche presso le Autorità, ben inteso nella nostra grande necessità, abbiamo avuto consegnato un posto al famoso Silos, la gran parte di noi ammucchiati in CAMERONI privi di LUCE e di SOLE […]”. La vita al Silos viene dipinta come “un vero COVO, una vera BABILONIA, un GHETO dello schiamazzo”.
Il documento si conserva all’interno degli Atti di Gabinetto della Prefettura di Trieste, in un fascicolo contenente varie tipologie di reclami e richieste, inoltrate alla Presidenza di zona o direttamente al prefetto, dalle persone che, fra 1950 e 1955, abitavano nell’edificio del Silos. Dai testi di questi documenti emerge il quadro di una situazione alquanto critica delle condizioni in cui vivevano gli alloggiati al Silos, sia dal punto di vista igienico e sanitario, sia dal punto di vista sociale, dal momento che le famiglie si trovavano assiepate in ambienti malsani perché troppo angusti, spesso senza luce naturale e con scarso ricambio d’aria, troppo caldi d’estate e troppo freddi e piovosi d’inverno, a volte invasi dai topi. All’interno dei box assegnati, con pareti costruite con assi di legno, spesso privi di copertura, delle dimensioni di poco più di 16 mq, si era costretti a vivere a diretto contatto di estranei, con pochi servizi igienici in comune, in uno stato di promiscuità che rendeva impossibile il rispetto della reciproca vita privata. L’affollamento forzato era causa di comportamenti aggressivi e conseguenti liti, la convivenza fra le varie famiglie, stipate negli scompartimenti assegnati o addirittura nei corridoi, risultava complessa, ma ciò nonostante si cercava anche di dare una certa continuità alle abitudini acquisite prima dell’esodo, ad esempio con la richiesta di poter organizzare balli o feste in occasioni particolari, soprattutto a beneficio dei bambini, o di svolgere in appositi spazi i propri mestieri. Richieste di normalità e di una volontà di ritorno alla vita, prima dello sconvolgimento portato dagli eventi bellici e da quelli dell’immediato dopoguerra.
Le condizioni di vita all’interno del Silos di Trieste sono testimoniate anche da articoli sulla stampa locale. Da un’inchiesta pubblicata su Il Lavoratore del 2 luglio 1951 risulta che all’epoca convivevano forzatamente nei tre piani del Silos circa 250 famiglie, oltre 300 bambini, per un totale di un migliaio di persone. Si trattava per la maggior parte di esuli della ex zona B o da altri territori passati alla Iugoslavia in seguito al trattato di pace, ma anche di triestini che avevano subito sfratto ed erano in attesa di un nuovo alloggio. Famiglie costrette a convivere in situazioni precarie e di forte disagio, come attestato dai documenti conservati fra le richieste e reclami degli Atti di Gabinetto della Prefettura. La Presidenza di Zona, a cui spettava di fatto la gestione del Silos e che ne pagava l’utilizzo alle Ferrovie dello Stato, proprietarie dell’immobile, riscuoteva dagli alloggiati un affitto dalle 500 alle 2000 Lire, a seconda della presenza o meno nel box di una finestra, della copertura e della posizione all’interno di uno dei piani dell’hangar.
Significative risultano le dichiarazioni fatte dagli abitanti del Silos, raccolte dall’inchiesta del quotidiano, riassunte così: “Emigrare! Ovunque si starà meglio”. E per molte famiglie di fatto questo fu il destino: una nuova vita altrove, in Australia o nelle Americhe.
Archivio di Stato di Trieste, Prefettura di Trieste, Atti di Gabinetto “La casa delle carte”, b. 14, fascicolo “Reclami e richieste varie” (1950-1955)